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Una legge dello stato italiano ha stabilito il 27 gennaio
(giorno della liberazione del campo di Auschwitz nel 1945) Giornata
della Memoria. Ma come dobbiamo intendere questa celebrazione?
Ricordare per mettere in questione: è l'osservazione più
semplice ed immediata che possiamo fare.
Se lo scopo della nostra memoria fosse soltanto quello di
innalzare un monumento su cui portare i fiori una volta l'anno, sarebbe davvero
ben poca cosa, e sarebbe ben poca cosa anche se si decidesse di tenere acceso il
lume ogni giorno dell'anno come accade allo Jad wa-Shem di Gerusalemme. L'eterna
fiammella che arde a tenere vivo nell'immaginario e presente e vitale e
pulsante, il nome del bambino che è morto ad Auschwitz. Ancora sarebbe poca
cosa. Umana, pietosa, degna di rispetto e di considerazione, degna di tutta la
nostra comprensione di uomini intelligenti, degna di tutta la nostra
intelligenza. Ma ancora poca cosa.
Perché c'è un rischio perennemente in agguato, il rischio di
trasformare il nostro ricordo in pura e semplice commemorazione. Non perché la
commemorazione non sia importante, non serve scomodare Foscolo per sapere che il
legame degli affetti è tutto quel che ci resta di fronte alla morte e
all'annientamento dell'essere umano. Ma perché ancora in fondo, se ci
accontentassimo di tutto questo, cadremmo nella trappola più grave e più
pericolosa, quella di soddisfare il nostro bisogno immediato di remissione,
quella di tacitare la nostra coscienza insoddisfatta, quella di dare sfogo alla
nostra cattiva coscienza di fronte ad un evento che non è ancora, né mai
abbastanza meditato, né mai sufficientemente ricordato.
Non possiamo far tacere il nostro orgoglio di uomini che non
comprendono, non dobbiamo accontentarci. Non abbiamo il diritto di erigere
questo alibi e proclamarci noi stessi "giusti" solo per questo, solo perché
siamo fra coloro che commemorano, una volta l'anno, o tutto l'anno.
Vogliamo essere fra i giusti ma commemorare non ci basta.
Vogliamo fare molto di più: vogliamo interrogare. Ecco forse
il senso più autentico della memoria, di questa speciale memoria è questo:
ricordare per interrogare. Per porre delle domande, a noi stessi, non ad altri,
siamo noi stessi, in questo senso, ed in questo momento il tribunale della
storia, siamo noi coloro che devono porre le domande e siamo noi coloro che
devono rispondere. Richiamare il ricordo, rimettere in circolazione una memoria
sempre sul punto di scomparire, così come pian piano scompaiono i testimoni e si
spengono le voci che possono dire "io c'ero".
Molto presto più nessuno potrà dire "io c'ero" e allora
perderemo anche l'ultimo frammento di vita incollato all'evento della shoah.
Sarà il momento più drammatico, in cui davvero il senso della nostra memoria, il
valore del nostro ricordo verranno messi alla prova, alla prova di una verità
che possiamo tenere in mano, o lasciarci sfuggire.
Ecco perché dobbiamo cominciare subito a ricordare per
interrogare, ecco perché la nostra memoria deve immediatamente farsi
interrogazione, perché la domanda resta, perché la domanda mette in questione
impone esige una risposta e la risposta è un compito che viene dal passato e si
proietta nel futuro.
La memoria pura e semplice è una memoria morta se non
determina una interrogazione, una messa in questione, che viceversa rappresenta
una memoria viva, questa sì, pulsante, ed impegnativa perché mi chiama in causa,
ora, adesso, impone da me che dica chi sono io adesso, come mi colloco io ora
qui in questo momento in questo universo, rispetto alla storia che mi sta dietro
e a quella che mi sta davanti, rispetto al mio impegno per il futuro.
Ricordiamo dunque, perché questo è un imperativo, ma
ricordiamo per mettere in questione, per domandare, per interrogarci, per essere
noi stessi quella viva memoria dei testimoni che scompariranno, perché di padre
in figlio si trasmetta questo impegno di non illuderci mai di essere giunti alla
verità definitiva, una verità definitiva che sola produce catastrofi e tragedie
a coloro che pensano d'averla raggiunta una volta per tutte e di tenerla al
guinzaglio come si terrebbe un cane.
STEFANO ZAMPIERI
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