STEFANO ZAMPIERI
IL FLAUTO D'OSSO. LAGER E LETTERATURA
FIRENZE, EDITRICE LA GIUNTINA,
1996
Sommario: Levi, Celan, Antelme, Wiesel, Améry, Bettelheim, Nelly Sachs e tanti altri: dal discorso dei sopravvissuti nasce una testimonianza che sgomenta; l'intera nostra cultura, la nostra stessa storia devono riprendere da qui un nuovo cammino. Ma non si tratta soltanto di ricordare quanto, piuttosto, di capire quel che di essenziale e irripetibile si è realizzato.
Dal coro dei superstiti, infatti, si ricavano delle tracce di umanità: l'esperienza della fame, che porta ad una nuova immagine della materialità, l'importanza della relazione che l'aguzzino tenta di strappare e la vittima ricuce pazientemente per guadagnare il destino umano della socialità e della responsabilità.
Ciò che appare, infine, è il compito della letteratura
dopo l'Olocausto: trovare le parole per dire quanto di indistruttibile
vi è nell'umano, quel che nessuna violenza può cancellare.
La testimonianza letteraria del lager ci restituisce due esperienze sconvolgenti: la fame, la relazione.
Ciò che bisogna capire è che non si tratta di esperienze occasionali, passeggere, legate ad un certo evento e quindi destinate ad essere cancellate con quello. Si tratta di qualcosa di molto più profondo ed autentico, due esperienze che hanno a che fare con la natura profonda dell'umano.
L'esperienza della fame, esperienza radicale, assoluta, devastante, quale produce il lager, mette in questione il nostro stesso rapporto con il mondo, la necessità di un rapporto manducatorio che è assimilazione e riproduzione del mondo, che è esperienza in primo luogo della materialità delle cose, del peso del reale, della consistenza dell'oggetto, della priorità stessa, per l'uomo, del concreto, del materiale, del solido, sullo spirituale.
E' una esperienza, dunque, che produce un sapere, un sapere non metafisico, non trascendentale, materialistico, per quanto non sappia strutturarsi in un discorso razionale.
Ciò è detto benissimo, ad esempio, dalla metafora
centrale della più nota poesia di Celan, Nero latte.
E' il secondo motivo d'esperienza, la seconda figura, che la letteratura del lager ci offre: la relazione. Meglio, la messa in questione della relazione umana. Perché le risposte possono essere diverse, le immagini che appaiono contrastanti, ma comune è la necessità di mettere al centro del discorso quel che normalmente non consideriamo: che l'uomo è le proprie relazioni.
Ciò appare in Améry, il quale sembra accettare la logica stessa dell'aguzzino e del lager, cioè la possibilità della separazione, cioè la logica della violenza, dello strappo, che la tortura sembra testimoniare, e che egli tenta di ribaltare contro la logica della violenza attraverso l'apologia della libera morte, il suicidio.
In realtà, come ci testimoniano Wiesel e Levi, se c'è una possibilità di salvezza dalla logica della relazione, essa consiste proprio nell'apparire estremo di un contatto, di un gesto, di un atto di generosità, di solidarietà, di responsabilità.
Il lager, in questo senso, rappresenta il tentativo di realizzare una società modello, in cui l'uomo sia ridotto ad atomo obbediente, a macchina biologica, separata, isolata, deprivata delle sue caratteristiche di umanità, cioè di relazione. Una umanità di uomini "altri", in cui nessuno può dire "io", perché ognuno è estraneo a sè e ad ogni altro. Una comunità di estranei, accomunati da una silenziosa obbedienza, e da un lavoro senza peso e senza scopo.
Ciò pone forti interrogativi sul senso stesso, sulla ragione profonda della nostra civiltà, del mondo della produzione e della tecnica. Rispetto al quale esso rappresenta il limite non l'eccezione.
Ma la logica della violenza, la logica della separazione che si realizza nel lager, mette in crisi anche l'idea suprema di relazione, cioè l'idea di Dio e, di conseguenza, la questione della Teodicea, che sullo spazio della libertà umana, vero argine di resistenza all'onnipotenza divina costruisce un'etica della responsabilità il cui centro è la relazione necessaria che lega gli uni agli altri.
Proprio attraverso la nozione di relazione Bettelheim studia
il rapporto tra psicosi autistica e condizione del lager. In entrambi
i casi la distruzione del rapporto porta alla distruzione di sè,
delle proprie possibilità vitali, da cui ci si salva soltanto
per quanto si riesce a conservare o ricostruire in tessuto di
relazioni umane. Relazioni con gli altri, relazioni con le cose
e il loro senso umano, il loro valore, il loro contenuto di memoria.
In questo senso dovremmo riflettere sul fatto che se anche oggi
la ragionevolezza umana sa forse, almeno in parte, evitare di
ripiombare nella condizione del lager così come l'abbiamo
conosciuto, resta tuttavia il fatto che noi ci troviamo ancora
dentro la logica del lager, cioè la logica della
separazione, in cui gli individui sono trattati sempre più
come atomi, isolati nelle loro case, chiusi di fronte al grande
simulacro di relazione che è la televisione, circondati
da oggetti che sono stati privati del loro valore, del loro contenuto
di memoria, di umanità, prodotti in serie in base ad un
principio economico di deperibilità, ridotti a merce usa
e getta, incapaci di intrattenere alcun rapporto con l'uomo. Ma
l'uomo che non sa intrattenere rapporto alcuno con gli altri e
con le cose è l'uomo affetto da un autismo sotterraneo
ma devastante, è il prigioniero del campo destinato ad
una silenziosa obbedienza, in attesa di una morte anonima che
qualcuno deciderà per lui.
Le testimonianze letterarie (e non solo) del lager ci mostrano invece il valore fondativo di umanità, di vita, di un gesto di generosità, di un atto di solidarietà senza interesse.
L'esperienza del campo ci mostra anche quell'aspetto essenziale
della relazione che è la parola, e in generale mostra lo
scontro che si realizza tra la volontà di cancellare ogni
relazione umana (e rendere così l'uomo macchina servile,
obbediente e produttiva) e l'irriducibile destino umano
di conservare una traccia, un filo, un rapporto, un bottone, una
storia, che è il proprio fondamento di umanità,
è il proprio essere vivi, non essere ancora morti.
Una volta che si siano colti gli elementi essenziali del racconto del lager è necessario tornare a interrogarsi sul senso, o sul valore o sul destino della testimonianza che il sopravvissuto è stato capace di offrire.
Prima di tutto è necessario comprendere il rapporto che lega l'evento storico alla scrittura, un rapporto che si può sintetizzare nei termini di una dominante, talvolta oscura, non evidente, che si trova al fondo di innumerevoli opere.
Dominante è propriamente la necessità di mettere in questione determinate figure piuttosto che altre. La necessità (che magari l'autore non percepisce direttamente, ma pure è in funzione) di strappare al senso comune, all'accettazione immediata e indiscussa certi elementi dell'umano che l'evento fa affiorare e rende improvvisamente visibili.
Testimonianza, da parte dell'autore, e Dominanza
da parte dell'evento, si stringono in un circolo che l'analisi
deve saper sciogliere.
Per contattarmi: s.zampi@libero.it